BOXE – ”Tutti sanno che colpi ripetuti alla testa non sono una cosa buona – spiega Charles Bernick del ‘Lou Ruvo Center for Brain Health’ di Cleveland, che ha condotto lo studio – ma nessuno sapeva come si passava dai colpi allo sviluppo di malattie degenerative a lungo termine. Ora abbiamo una idea della sequenza”.
Finora le ricerche si sono concentrate su traumi violenti e su commozioni cerebrali alla testa più che su colpi costanti ma di minore intensità. ”Non dobbiamo concentrarci sui soli traumi violenti – continua – perché sopportare migliaia di colpi che non ti mettono k.o. potrebbe essere più dannoso per la salute del cervello”. Da uno studio condotto su 109 boxers svolto mediante una risonanza magnetica emerge che il cervello dei pugili inizia a cambiare ‘fisicamente’ ben prima che i segni di un calo cognitivo, come la perdita di memoria o altri cambiamenti di queste funzioni, prodotti da ripetuti colpi alla testa, diventino evidenti. Già dopo 6 anni sul ring si può riscontrare infatti una riduzione delle dimensioni dell’ippocampo e del talamo, cioè le aree cerebrali deputate alle funzioni mnemoniche e di prontezza. Anche se il cervello cambia già dopo 6 anni, i segni del declino cognitivo diventano evidenti nei pugili quando questi sono sul ring da più di 12 anni. Secondo i neurologi, l’idea che con una risonanza magnetica si possano identificare patologie degenerative cerebrali prima che i sintomi siano evidenti potrebbe essere utile per moltissime persone. Senza contare che ciò potrebbe portare ad una migliore comprensione del morbo di Alzheimer e di altre malattie delle persone anziane. (Scienza e Tecnologia di Blitzquotidiano)
Già da diversi anni ormai sono note le conseguenze neurologiche che possono comparire dopo aver praticato per alcuni anni uno sport come la boxe, dove i colpi alla testa sono molto frequenti. La cosiddetta “demenza del pugile” è una sindrome che si sviluppa quando gli atleti che in giovane età hanno praticato per un tempo prolungato questa attività, invecchiando sviluppano un morbo simile a quello di Alzheimer, che presenta però alcune caratteristiche diverse e peculiari. In generale, nel cervello dei pazienti che soffrono di Alzheimer ci sono tracce di due proteine: la betamiloide, per la quale è noto che una produzione anomala da parte del corpo anticipa una malattia riguardante la degenerazione cellulare; e la tau, che si presenta di solito nella seconda fase delle malattie neurodegenerative ed è materialmente responsabile della graduale distruzione delle cellule cerebrali. Nelle persone che invece soffrono di “demenza pugilistica” non è in alcun modo presente la proteina betamiloide, ma per contro ci sono grandi quantità di tau. Questa condizione patologica è tipica della encefalopatia traumatica cronica, una malattia rara causata da ripetute commozioni cerebrali, ma si può sviluppare anche quando si debbano assorbire diversi colpi ripetuti alla testa, anche se di minore intensità.
A tal proposito risulta fondamentale la assistenza che viene fornita dal Medico dello Sport, che è la sola figura in grado di valutare se la pratica sportiva che si sta svolgendo sia salutare o se a lungo termine possa avere anche alcune conseguenze negative.
FOOTBALL AMERICANO – Uno studio condotto da Everett Lehman, del ‘National Institute for Occupational Safety and Health’ di Cincinnati (Ohio) prende atto, una volta di più, di un dato obiettivo: alcune categorie di sportivi, in questo caso specifico i giocatori di football americano, muoiono tre volte più del resto della popolazione per malattie neurodegenerative. Un rischio che, parlando di morbo di Alzheimer e sclerosi laterale amiotrofica, anche nota come S.L.A., risulta aumentato fino a quattro volte. Per questa ricerca sono stati presi in considerazione più di 3.400 ex giocatori professionisti della National Football League con un’età media di 57 anni, scesi in campo per almeno cinque stagioni tra il 1959 e il 1988. Al momento della analisi ne erano già deceduti 334, circa il 10 per cento.
«La mortalità, considerando tutte le possibili cause, era inferiore a quella della popolazione generale come ci si potrebbe aspettare in un gruppo di sportivi sani» spiega Lehman «Ma andando a esaminare le cause di morte, i sette casi attribuiti all’Alzheimer e i sette legati alla S.L.A. sono di circa quattro volte superiori alla media». Inoltre la National Football League, la federazione che regola e gestisce il campionato di football americano, ha fatto sapere di aspettarsi che il 28% degli ex giocatori della propria lega – cioè circa seimila sui diciannovemila totali – svilupperà problemi neurologici a lungo termine.Questo dato è emerso recentemente, nel corso del processo che la NFL sta affrontando, dopo che più di 4000 ex giocatori le hanno fatto causa per non essere stati informati dei rischi neurologici di una carriera nel football. Secondo il “New York Times”, il recente comunicato è “la più onesta ammissione fatta fino ad ora del fatto che gli atleti professionisti di football americano subiscano gravi danni cerebrali, essendo così esposti a un tasso di rischio molto più alto rispetto alla normale popolazione”. Secondo un documento preparato dagli avvocati degli ex giocatori, si può prevedere che al 14% degli ex giocatori verrà diagnosticato il morbo di Alzheimer e a un altro 14% una qualche altra forma di demenza.
(“Il Corriere Della Sera” – “Il Post”)
Riportando la situazione quasi ai giorni nostri, anche nel Football Americano ci sono stati diversi casi di morti “sospette”, probabilmente causate dai ripetuti traumi al cranio ricevuti dai giocatori e che hanno manifestato ripercussioni negative soltanto ad una età più avanzata. La stessa N.F.L. ossia la Lega Nazionale Americana di Football ha riconosciuto nel 2013 che coloro che hanno praticato questo sport hanno una probabilità più alta rispetto al resto della popolazione di sviluppare malattie neurodegenerative come Alzheimer, S.L.A. o encefalopatie traumatiche croniche.
La Federazione ha inoltre proposto un accordo di risarcimento che prevedeva un indennizzo di circa 170.000 euro a ciascun giocatore con cui era stata in causa fino a quel momento per questa ragione. Per questo motivo, seppur con sviluppi abbastanza recenti, anche in questo sport è stata riconosciuta la gravità delle conseguenze che può portare alla salute di una persona ricevere continui e considerevoli traumi alla testa. Quanto conta quindi il benessere degli atleti se alla prima occasione utile non si esita a porlo in secondo piano, pur di rispettare le esigenze di business e di fatturato che nella maggior parte dei casi indicano la strada maestra da seguire?
CALCIO – Uno è un caso, due sono una coincidenza, tre iniziano a diventare qualcosa di più: ecco perché la F.A. (Football Association), la Federcalcio Inglese, ha deciso di andare fino in fondo alla storia documentata da una inchiesta del Daily Mirror che riguarda nello specifico tre casi documentati di demenza.
Martin Peters, Nobby Stiles e Ray Wilson sono 3 ex giocatori di calcio degli anni ’60-‘70 che tra i loro successi sportivi vantano anche il titolo di Campioni del Mondo nel 1966, primo ed unico titolo mondiale ottenuto dalla nazionale inglese a livello calcistico. Più in generale però, questa indagine vorrebbe accertare la possibile connessione tra i ripetuti microtraumi cerebrali dati dai continui colpi di testa che avvengono in questo sport e i molteplici casi gravi di demenza riguardanti ex calciatori. La richiesta è arrivata in particolare dal responsabile medico della F.A., Ian Beasley, convinto che un’ampia indagine statistica su scala mondiale possa aiutare a fare chiarezza: «La speranza è che la F.I.F.A. ci possa dare una risposta in un senso o in un altro. È una questione di salute e di sicurezza, in modo che noi possiamo dire ad un praticante che teoricamente può andare incontro a danni irreversibili colpendo ripetutamente e con forza il pallone con la testa”. È una delle tesi più citate, nonché la causa più accredita della morte nel 2002 a soli 60 anni per encefalopatia traumatica cronica di Jeff Astle, ex centravanti del West Bromwich, eccellente specialista del colpo di testa. Secondo uno studio dell’Università di Toronto i colpi di testa gli avrebbero provocato piccoli ma costanti traumi cranici al cervello degenerati poi in demenza. «A quei tempi, se la palla era bagnata, un tiro di Pelé o Bobby Charlton poteva essere violento come un pugno» ha denunciato il genero di Peters, sostenuto anche dal grande portiere Gordon Banks «Sì, quei palloni erano pesantissimi».
(“Il Corriere Della Sera”)
Visti i precedenti casi già considerati di boxe e football, è molto probabile che anche in questo caso gli accertamenti scientifici possano dare ragione a questi ex giocatori, soprattutto se valutate attentamente le condizioni di gioco, con palloni di cuoio non impermeabili, che in caso di pioggia potevano diventare pesanti come dei macigni. In particolare nel caso di Peters, Stiles, Wilson e Astle, che senso può avere compiere grandi imprese sportive, in cui una persona per una intera vita investe i propri sforzi e i propri sacrifici, se poi non può neanche averne un minimo ricordo?
La considerazione finale e forse più importante però sta nel chiedersi se anche oggi – con i progressi che la tecnologia ha permesso di applicare anche alla costruzione dei palloni da calcio, che sono diventati così molto più leggeri e totalmente impermeabili – i continui colpi di testa ammessi dal regolamento e presenti in partite che comprendono giocatori di qualsiasi categoria e di qualsiasi età, siano ancora così dannosi per il cervello umano.
Per questo motivo rivolgiamo un appello alla F.I.G.C. affinchè ci contatti per avviare uno studio con giocatori che abbiano intrapreso la carriera calcistica intorno al 2006, anno di introduzione del primo pallone totalmente impermeabile, per verificare se ancora oggi questi microtraumi, dati dal colpire il pallone con la testa, possano avere effetti devastanti sulla salute futura di queste persone. Questo perché come già evidenziato durante la analisi riguardante la boxe, secondo i neurologi, l’idea che con una risonanza magnetica dopo circa 6 anni di attività sportiva si possano identificare patologie degenerative cerebrali, i cui sintomi evidenti si presenterebbero soltanto dopo 12 anni, potrebbe essere utile e a volte addirittura vitale per moltissime persone. Senza contare che ciò potrebbe portare ad una migliore comprensione del morbo di Alzheimer e di altre malattie neurodegenerativi riguardanti le persone anziane.
Prima di essere coinvolti in processi con relative sentenze, prima che ci pensino gli inglesi come spesso accade ad effettuare studi moderni e originali, prima che siano sempre gli altri ad essere considerati innovativi, prima di arrivare tardi, pensiamo noi italiani a sviluppare questo tipo di ricerca, perché riuscire a fare una attività di prevenzione che possa portare a salvare anche una sola persona da una malattia degenerativa sarebbe un grandissimo successo. Mai come in questo caso infine poche e semplici parole risultano perfettamente indicate per descrivere lo scopo di questo studio:
Dott. Davide Ghilardi